Il principio di equivalenza negli appalti pubblici: equivalenza non sempre equivalente? Spunti per una riflessione

Il principio di equivalenza, codificato fin dagli anni ’90[1] con riferimento alle specifiche tecniche, è divenuto col tempo un tema molto dibattuto dalla giurisprudenza amministrativa in materia di appalti pubblici. Esso svolge indubbiamente un ruolo importante nelle procedure di gara per l’assegnazione di commesse pubbliche, come è confermato dall’enfasi con la quale si fa spesso riferimento, nelle sentenze, a tal principio, del quale si è affermato che “permea l’intera disciplina dell’evidenza pubblica[2]. È stato, infatti, giustamente rilevato che lo scopo di tale regola è quello di far sì che anche i prodotti che non rispettano le specifiche tecniche richieste dall’ente appaltante, ma che pure sono equivalenti nelle prestazioni, possano concorrere comunque alla gara, salvaguardando in tal modo non solo i principi costituzionali di imparzialità, buon andamento e libertà d’iniziativa economica, ma anche – e soprattutto – il principio di concorrenza, di derivazione comunitaria. Se, ad esempio, un determinato materiale soddisfa gli standard di resistenza richiesti dalla legge di gara, ma è certificato secondo specifiche tecniche diverse rispetto a quelle richieste, cionondimeno è giusto che partecipi alla gara: il principio di equivalenza è, infatti, proprio finalizzato ad evitare una illogica limitazione del confronto competitivo fra gli operatori economici, giustamente ritenuta irragionevole ogniqualvolta si ravvisi la presenza, sul mercato di riferimento, di prodotti che sono sostanzialmente corrispondenti al bene richiesto dalla amministrazione, ma che risultano tuttavia formalmente privi di una specifica tecnica prescritta dalla legge di gara quale requisito minimo indefettibile, e quindi da possedersi a pena di esclusione[3]. Detti prodotti, sebbene non conformi alle specifiche tecniche indicate della amministrazione, devono ritenersi comunque accettabili proprio in quanto capaci di garantire le medesime prestazioni. É quindi ragionevole concludere che siffatti prodotti devono poter competere in gara; tutto ciò, ovviamente, a condizione che il concorrente dimostri la loro idoneità a soddisfare in maniera analoga l’interesse pubblico perseguito dalla amministrazione.

Non va però dimenticato che il principio di equivalenza è sorto, nell’ordinamento comunitario, al precipuo fine di evitare che differenze nelle modalità di certificazione degli standard produttivi o qualitativi dei beni in commercio potesse limitare ingiustamente la concorrenza tra prodotti di fatto equivalenti; il che potrebbe facilmente verificarsi laddove venisse richiesto, nell’ambito di una gara pubblica, il possesso obbligatorio di una omologazione tecnica o specifica tecnica regolamentata da una normativa nazionale, avvantaggiando così i produttori nazionali che dispongono di prodotti omologati o certificati secondo la standard locale, a discapito di quelli esteri, che seppur equivalenti, risultano omologati o certificati secondo standard non riconosciuti.

Il principio di equivalenza si è però ben presto rivelato idoneo ad ovviare anche ad un altro (grave) inconveniente delle procedure pubbliche: ossia alla presenza indebita, tra i requisiti richiesti a pena di esclusione dalle stazioni appaltanti, di caratteristiche tecniche specifiche proprie di un dato prodotto o produttore, potenzialmente lesive della concorrenza. Questo è potuto accadere perché l’obbligo di ammettere alla gara prodotti equivalenti non è circoscritto, nelle fonti normative (cfr. art. 68 D. Lgs. 50/2016 e ora all. II.5 D. Lgs. 36/2023), alle difformità derivanti da norme, omologazioni tecniche o specifiche tecniche nazionali, ma vale anche in riferimento a fabbricazioni o provenienze determinate; ovvero ai procedimenti particolari che risultano “caratteristici di un operatore economico”; ovvero – ancora – ai marchi, brevetti, tipi, origini o produzioni specifiche che avrebbero effetto di favorire od eliminare talune imprese o taluni prodotti. In tali casi, prevede l’ordinamento, le amministrazioni non possono escludere un’offerta perché non conforme alle specifiche tecniche prescritte ogniqualvolta il concorrente riesca a dimostrare “con qualsiasi mezzo appropriato” che la sua soluzione ottempera in maniera equivalente ai requisiti prescritti dalle specifiche tecniche. E la giurisprudenza ha aggiunto che il principio di equivalenza, stante la sua essenzialità, deve trovare applicazione indipendentemente tanto da espressi richiami negli atti di gara, quanto da parte degli stessi concorrenti; esso, inoltre, opera in tutte le fasi della procedura ad evidenza pubblica ed è applicabile tanto ai requisiti minimi di partecipazione, quanto ai giudizi di merito delle offerte[4].

Una siffatta applicazione a tutto campo, per così dire, del principio di equivalenza comporta però un pericolo di non poco conto: ossia che, nel generoso tentativo di garantire la massima concorrenza, si finisca però per ledere o il principio di parità tra i concorrenti, ovvero la stessa libertà di scelta della amministrazione, che deve pur sempre rimanere arbitra delle proprie decisioni; occorre in altre parole evitare che, col pretesto di interpretare le esigenze sostanziali dell’amministrazione, si finisca per obbligarla ad accettare un bene sostanzialmente diverso da quello richiesto.

La giurisprudenza amministrativa si è quindi dovuta cimentare con il problema di comporre il contrasto tra l’esigenza di garantire parità di condizioni tra operatori sul mercato e quella di non pregiudicare la discrezionalità tecnica della amministrazione. In linea di massima, il criterio discriminante adottato dai giudici amministrativi poggia sulla distinzione tra requisiti funzionali e requisiti dimensionali e differenzia il caso in cui l’amministrazione si è limitata a richiedere un bene genericamente in grado di assolvere ad una determinata finalità dal caso in cui essa abbia indicato caratteristiche strutturali intrinseche che individuano una specifica tipologia di macchinario ed alle quali devono corrispondere i beni proposti in gara. Tale distinzione appare, a prima vista, chiara: se conta il risultato, largo all’equivalenza; se si vuole, invece, un dato bene individuato tramite caratteristiche fisiche ben definite, no. Tuttavia, se si analizzano le applicazioni pratiche di tale criterio, ci si imbatte in una casistica che non aiuta a chiarire le idee. Ad esempio, di fronte alla richiesta, per ragioni di comfort, di camici da ospedale confezionati senza cuciture, è stato ritenuto equivalente un camice con cuciture sulle maniche perché trattasi di dettaglio ininfluente ai fini della comodità d’uso[5]; invece, di fronte alla richiesta di un sistema per la somministrazione di farmaci di tipo “chiuso”, dotato di siringa termosaldata con camera interna di contenimento vapore, non è stato ritenuto equivalente un sistema funzionalmente equivalente, ma dotato di comune siringa non termosaldata, non essendo questo esattamente quanto richiesto dalla amministrazione[6]; ed ancora: un cambio “automatizzato” di una automobile non è equivalente ad un cambio “automatico” in quanto differisce sotto il profilo della architettura costruttiva e del principio di funzionamento[7]; due confezioni da cinquanta test medicali con scadenza ad un mese non equivalgono ad una confezione da cento test con scadenza a due mesi[8]; ma dei guanciali antisoffocamento alti 40 cm., invece che almeno 45 cm., sono equivalenti perché si può ritenere che il diverso schema costruttivo non abbia effetti peggiorativi sulla prestazione del prodotto[9]; e dei letti da ospedale alti solo 82 cm. in luogo degli 85 minimi richiesti (per inserire gli amplificatori di brillanza) sono equivalenti perché presentano un basamento aggiuntivo dove collocare gli amplificatori[10]. Come si vede, non sempre il mancato rispetto dei requisiti fisici ha portato il giudice amministrativo a negare l’equivalenza; non sempre il rispetto dei requisiti funzionali ha portato ad ammettere l’equivalenza.

La mera distinzione tra requisiti funzionali e dimensionali si rivela, in conclusione, insufficiente. A noi sembra che l’elemento ulteriore che dovrebbe essere considerato risieda nell’essenzialità del requisito, funzionale o dimensionale che sia; rileva, in sostanza, che il requisito debba essere soddisfatto non già perché l’amministrazione l’ha indicato come obbligatorio, ma perché esso è oggettivamente imprescindibile per realizzare il fine perseguito. Per esemplificare: se l’amministrazione richiede degli scaffali da biblioteca aventi una altezza massima prefissata perché tale è lo spazio disponibile in ragione delle dimensioni dei locali da adibire a biblioteca, il requisito è essenziale perché uno scaffale più grande, anche di un centimetro, non potrebbe essere installato. Ma se, viceversa, si richiede un lettino d’ospedale su ruote avente una data altezza minima per consentire di installare in tale spazio strumentazione diagnostica di una data dimensione, il requisito dimensionale può essere soddisfatto in modo equivalente anche da un lettino più basso, ma dotato di basamento aggiuntivo idoneo a sostenere la strumentazione prevista.

Questo criterio distintivo consentirebbe di risolvere anche i casi più problematici, che sono quelli nei quali il requisito obbligatorio consiste in un valore dimensionale specifico di un elemento costruttivo interno del bene. Non vi è dubbio, infatti, che le modalità costruttive interne, sebbene esprimibili con misure dimensionali, non dovrebbero mai assurgere ad elemento di scelta dell’operatore economico, in quanto vi osta il divieto di individuare, tramite le specifiche tecniche, fabbricazioni o provenienze determinate, ovvero procedimenti costruttivi particolari che risultano caratteristici di un operatore economico. Se, per esemplificare, l’amministrazione che volesse acquisire un’autovettura specificasse, tra i requisiti obbligatori, la dimensione fisica esatta che deve avere il motore od un suo componente, verrebbe molto probabilmente lesa la parità di condizioni tra concorrenti, dal momento che forma e dimensioni del motore o dei pezzi che lo compongono non sono sempre requisiti essenziali, mentre lo sono quelli che attengono le prestazioni del motore, in termini di potenza, consumo, ecc.

Tale ragionamento si complica, tuttavia, nel caso di requisiti dimensionali che concorrono a definire il bene stesso, oggetto di gara, in quanto da essi normalmente discende direttamente la capacità funzionale del bene: capita, infatti, sovente che la caratura di un dato componente (ad es., la cilindrata del motore, sinonimo di potenza e, quindi, di prestazioni globali del mezzo) possa essere utilizzata dall’amministrazione per meglio definire ed identificare il bene ricercato. In un tale caso, il requisito è non solo indubbiamente dimensionale, ma anche essenziale, perché finalizzato ad identificare la stessa tipologia del bene che l’amministrazione ha inteso conseguire. Tuttavia, ad un più attento esame, ci si accorge che il requisito dimensionale non assume rilevanza in sé, ma in via indiretta, in quanto ciò che realmente interessa non è quella caratteristica costruttiva, ma le conseguenze indotte da essa (maggiori prestazioni). La caratteristica costruttiva, in altre parole, concorre a specificare quanto richiesto dall’ente: nell’esempio della selezione di una vettura, il primo passo è decidere la classe di appartenenza del mezzo (utilitaria, berlina, sportiva, ecc.). E dunque può avere un senso eleggere a requisito minimo una caratteristica che si ritrova solamente nei beni che appartengono ad una determinata fascia di mercato e che dunque concorre a definire quanto deve essere offerto.

Tuttavia, il principio di equivalenza esige che sia sempre contemplata la possibilità di ammettere alla competizione anche beni che sono privi del requisito dimensionale essenziale, ma che sono egualmente in grado di competere, a parità di condizioni e di prestazioni, grazie a soluzioni tecniche innovative o a diverse filosofie costruttive che consentono, per altra via, di eguagliare le prestazioni altrui. Tali beni hanno pari diritto di partecipare alla competizione, anche nel caso in cui i requisiti abbiano la funzione di una sorta di preselezione di categoria. Se, ad esempio, il vincolo di cilindrata non inferiore ad un dato valore dovesse essere inteso come requisito minimo dimensionale non surrogabile poiché requisito dimensionale oggettivo che garantisce una determinata potenza, e dunque prescelto dalla amministrazione col fine di preselezionare in partenza prodotti di elevate prestazioni, una vettura elettrica, pur capace di prestazioni uguali, e finanche superiori, sarebbe destinata ad essere irrimediabilmente esclusa dalla competizione in quanto difforme perché priva di cilindri e di cilindrata.

In conclusione, le attuali linee guida dettate dalla giurisprudenza amministrativa non sono sempre idonee a salvaguardare lo spirito con il quale il legislatore ha dato vita alle disposizioni che si sono esaminate: in taluni casi, la canonica distinzione tra requisiti funzionali e requisiti dimensionali si dimostra fallace e finisce per operare contro gli stessi interessi pubblici che vorrebbe invece salvaguardare. Occorre, dunque, approfondire l’analisi, concentrando l’attenzione non solamente sul tipo di caratteristica minima richiesta, ma anche sul fine per raggiungere il quale essa è stata concepita ed inserita nella legge di gara. È questa, infatti, la via maestra attraverso la quale si può garantire che le esigenze della pubblica amministrazione vengano concretamente attuate: assicurare la partecipazione alla competizione a tutti i beni che, essendo equivalenti nella sostanza, possono soddisfare in modo analogo l’interesse pubblico sotteso alla selezione anche se non equivalenti nella forma o nella dimensione.


[1] Il principio di equivalenza è rinvenibile già nell’art. 18 della direttiva 14 giugno 1993 n. 93/38/CEE. Esso è poi stato ripreso, in termini più ampi, da alcune direttive in tema di appalti pubblici (cfr. direttive 31 marzo 2004 n. 17 e 18; direttiva 13 luglio 2009 n. 81; direttive 26 febbraio 2014 n. 24 e 25). Esso è stato poi recepito nella normativa nazionale (cfr. art. 8 D. Lgs. 358/1992; art. 19 D. Lgs. 17 marzo 1995 n. 158; art. 68 D. Lgs. 12 aprile 2006 n. 163; art. 24 D. Lgs. 15 novembre 2011 n. 208; art. 68 D. Lgs. 18 aprile 2016 n. 50; all. II.5 D. Lgs. 31 marzo 2023 n. 36).

[2] Si veda, tra le tante, Cons. Stato, sez. III, 20 giugno 2022 n. 5074.

[3] Si veda, in tal senso, Cons. Stato, sez. IV, 7 giugno 2021, n. 4353.

[4] Cfr. Cons. Stato Sez. III, 25 novembre 2020, n. 7404 che richiama Cons. Stato Sez. III, 27 novembre 2018, n. 6721.

[5] Cfr. Cons. St., sez. III, 29.3.2018 n. 2013.

[6] Cfr. Cons. St., sez. III, 28.9.2018 n. 5568. In senso contrario, cfr. C.G.A., 20.7.2020 n. 634.

[7] Cfr. Cons. St., sez. V, 8.5.2019 n. 2991.

[8] Cfr. Cons. St., sez. VI, 15.6.2020 n. 3808.

[9] Cfr. Cons. St., sez. III, 7.1.2022 n. 65.

[10] Cfr. Cons. St., sez. III, 20.6,2022 n. 5074.

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