La penalità di mora nel giudizio avanti il Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche

Tribunale Superiore delle Acque, 29 marzo 2013, n. 49 (sentenza breve) – Vitrone Presidente – Scola Estensore – San Pellegrino S.p.A. (avv. Manzi e Sica) – Regione Sicilia (n.c.).

Acque pubbliche e private – Giurisdizione Tribunale Superiore delle Acque – Giudizio di ottemperanza – Inottemperanza della p.a. – Poteri del giudice – Applicazione di penalità di mora – Ammissibilità.

Acque pubbliche e private – Giurisdizione Tribunale Superiore delle Acque – Giudizio di ottemperanza – Penalità di mora – Finalità – Ha natura sanzionatoria e non indennitaria.

La istanza proposta nell’ambito di un giudizio di ottemperanza avanti il Tribunale Superiore delle Acque e diretta ad ottenere l’irrogazione di penalità di mora alla pubblica amministrazione in caso di inottemperanza è positivamente valutabile dal giudice e può essere accolta (1).
La penalità di mora prevista dall’art. 114 del D.Lgs. 2 luglio 2010 n. 104 (codice del processo amministrativo) ha finalità sanzionatoria e non indennitaria (2).

(1-2) La penalità di mora nel giudizio avanti il Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche.

Sommario: 1. L’istituto della penalità di mora. – 2. La fattispecie. – 3. La determinazione del quantum della penalità.

1. L’istituto della penalità di mora.

La sentenza in esame costituisce un primo esempio di applicazione, da parte del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, dell’istituto della cosiddetta “penalità di mora”, già regolato, per il processo civile, dall’art. 614-bis, c.p.c., introdotto dalla legge 18 giugno 2009 n. 69. Si tratta di una importante novità per i giudizi in materia di acque pubbliche rimessi alla giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque, che viene tratta dal processo amministrativo, assunto quale modello di riferimento. L’istituto della penalità di mora, infatti, è ora applicabile anche nell’ambito del giudizio di ottemperanza avanti il giudice amministrativo, secondo quanto previsto dall’art. 114 del D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104 (codice del processo amministrativo). Si tratta di uno strumento avente il fine di garantire maggior effettività della tutela ottenibile tramite il giudicato amministrativo, nel pieno rispetto del fondamentale principio del processo amministrativo: quello di assicurare una tutela «piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo», come prevede l’art. 1 del codice.

L’esecuzione delle decisioni nei confronti delle pubbliche amministrazioni (e dunque anche nei confronti delle amministrazioni chiamate a regolamentare l’uso delle acque pubbliche) ha rappresentato storicamente uno dei punti più critici dell’ordinamento italiano, molto prudente nell’ammettere la facoltà di sottoporre a giudizio l’operato della pubblica amministrazione e tradizionalmente orientato a riservare a quest’ultima l’esercizio del potere amministrativo anche in caso di annullamento dell’atto illegittimo. Di fronte ad un comportamento ritenuto contrario a legge, l’autorità era tenuta a “conformarsi” (secondo quanto previsto dalla legge fondamentale di abolizione del contenzioso amministrativo risalente al 1865) al giudicato dei tribunali per quanto riguardava il caso deciso. In tal modo, si assicurava la tutela nei confronti di un atto viziato, senza tuttavia determinare ingerenze nell’amministrazione. Questa soluzione si è però dimostrata ben presto inadeguata, non essendo capace di garantire un’effettiva e celere ottemperanza al soggetto leso da un atto amministrativo viziato, in quanto, per il caso di annullamento di un atto lesivo di un interesse cosiddetto “pretensivo”, occorreva comunque attendere che l’autorità agisse. La necessità di porre rimedio a tale limite è stata la molla che ha impresso all’ordinamento una spinta evolutiva che non ha ancora terminato di produrre effetti e che è ancora foriera di novità, come quella che è stata introdotta dalla sentenza che qui si commenta. D’altronde, la questione attinente l’obbligo di conformazione da parte della pubblica amministrazione alle decisioni del giudice non è una questione di facile soluzione: se è vero, infatti, che la sentenza di annullamento di un atto amministrativo, in molti casi, non richiede alcuna esecuzione da parte dell’amministrazione, grazie al suo effetto “demolitorio” ed alla sua capacità di rimediare in radice all’illegittimità, mediante eliminazione dell’atto che l’ha determinata, resta pure sempre vero che in tutte le altre ipotesi normalmente sorge un dovere di agire in capo all’amministrazione, chiamata a porre in essere ulteriori provvedimenti per la cura dell’interesse pubblico e che sovente si tratta di un agere che non può essere agevolmente surrogato, tanto per ragioni di opportunità, quanto per motivi di “tecnica” amministrativa. L’ottemperanza al giudicato è quindi una problematica che ha costantemente oscillato (e ancora continua a farlo) tra la necessità di disporre di rimedi efficaci contro l’inerzia della amministrazione che, pur essendo gravata dall’onere di agire per conformarsi alla decisione del giudice, tuttavia non lo faccia e la necessità che la conformazione al giudicato venga pur sempre direttamente governata dalla pubblica amministrazione 1. L’idea che debba essere l’amministrazione competente a farsi carico dell’ottemperanza alla decisione del giudice è una costante sempre presente nell’evoluzione giurisprudenziale prima e legislativa poi del nostro ordinamento: dalla forse un po’ ingenua idea iniziale che, per indurre l’amministrazione a conformarsi al giudicato, sarebbe stata sufficiente una seconda pronuncia del giudice, confermativa dell’ordine di esecuzione già implicito nella pronuncia di cognizione, si è via via approdati al riconoscimento al giudice dell’ottemperanza del potere di procedere direttamente alla nomina del commissario ad acta , con il risultato di accrescere il livello di soddisfazione delle aspettative del ricorrente, pur senza stravolgere i criteri dell’esercizio del potere amministrativo.

2. La fattispecie.

In tale solco si colloca perfettamente l’istituto della penalità di mora, che la sentenza in commento applica ad una fattispecie in materia di acque pubbliche, mutuandola dal giudizio di ottemperanza proprio del processo amministrativo. Già in passato, infatti, il Tribunale Superiore delle Acque aveva avuto modo di affermare la propria giurisdizione in materia di ricorsi per l’ottemperanza delle proprie decisioni, argomentando sul fatto che nell’ordinamento erano rinvenibili previsioni che attribuivano la cognizione in materia di ottemperanza allo stesso giudice che avesse pronunciato la sentenza ottemperanda, risultando ciò corrispondente ad un «naturale principio di economicità processuale» (v. Trib. sup. Acque n. 7/1995 e n. 26/1997). Il Tribunale aveva, inoltre, rilevato che l’art. 10 della legge n. 205/2000, vera pietra miliare dell’ordinamento, induceva a ravvisare un favor legislativo per una giurisdizione generalizzata per materia in capo a ciascun giudice, ivi compreso il giudizio di ottemperanza relativo alle proprie sentenze e questo anche per sentenze non ancora definitive (v. Trib. sup. Acque n. 129/2005). Sotto il profilo processuale, la disciplina specifica per il Tribunale Superiore delle Acque non contiene indicazioni in merito alle regole da applicarsi per il giudizio di ottemperanza: va, tuttavia, osservato che l’art. 206 del T.U. delle disposizioni di legge sulle acque (R.D. 11 dicembre 1933, n. 1775) dispone che l’esecuzione delle decisioni emesse dal Tribunale Superiore delle Acque sui ricorsi avverso i provvedimenti definitivi resi dall’amministrazione in materia di acque pubbliche si deve fare «in via amministrativa», eccetto che per la parte relativa alle spese e che l’art. 208 prevede che, per tutto ciò che non è regolato dalle disposizioni del T.U., si osservano le norme del codice di procedura civile, nonché le norme del testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato (T.U. 26 giugno 1924, n. 1054). Dovendosi ritenere che si tratti di un rinvio non ricettizio, in quanto contenente un riferimento omnicomprensivo ad una disciplina processuale generale (cfr. in tal senso, Cass. civ., sez. un., 29 Ottobre 1981, n. 5693 in Foro it. , 1982, I, 75), appare del tutto corretto il richiamo che la decisione in commento opera nei confronti tanto dell’art. 614-bis c.p.c quanto dell’art. 114 codice del processo amministrativo.

Le norme che si sono citate disciplinano in modo del tutto similare l’applicazione della penalità di mora (spesso indicata in dottrina e giurisprudenza anche con il termine di “ astreinte ”, termine mutato dall’ordinamento francese, con significato analogo). Due distinzioni sono però rinvenibili: la prima, ravvisabile nel fatto che, nel processo civile, l’art. 614-bis trova applicazione con riguardo a tutte le sentenze, mentre nel processo amministrativo, soltanto con riguardo alle sentenze di ottemperanza; la seconda, consistente nel fatto che, nel processo amministrativo, l’istituto è applicabile in ogni caso, mentre in quello civile è applicabile solo in riferimento ad obblighi di fare infungibile o di non fare. Ci si potrebbe allora domandare se tali distinzioni potrebbero dar luogo a modalità applicative differenti tra Tribunale Superiore delle Acque e giudice amministrativo, e ciò in considerazione del fatto che le norme che regolano il processo avanti il Tribunale Superiore delle Acque rinviano in prima istanza alla disciplina processuale civile e solo in seconda istanza a quella amministrativa. Tuttavia una tale ipotesi non pare essere corretta, poiché la giurisdizione di merito all’interno della quale si colloca il giudizio di ottemperanza non conosce l’ostacolo della non surrogabilità (perlomeno sotto il profilo formale) degli atti necessari per garantire l’esecuzione della sentenza, stante la possibilità di ricorre alla nomina del commissario ad acta (come riconosce la stessa decisione in commento). La disciplina tratta dal processo amministrativo appare, quindi, essere quella che sicuramente più si confà alla materia sottoposta alla giurisdizione del giudice speciale delle acque, rimanendo comunque sempre possibile riferirsi alle regole dettate dall’art. 614-bis del codice di procedura civile, per quanto non disposto nel codice del processo amministrativo, attesa l’identità di ratio tra le due discipline (tant’è che nella sentenza in esame si mutuano dall’art. 614-bis i criteri per la determinazione dell’importo della astreinte ).

L’art. 114 del codice del processo amministrativo statuisce che il giudice « salvo che ciò sia manifestamente iniquo, e se non sussistono altre ragioni ostative, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dal resistente per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del giudicato; tale statuizione costituisce titolo esecutivo » . Del tutto similmente, l’art. 614-bis cit. prevede, ma solo con riguardo alle sentenze aventi ad oggetto obblighi di fare infungibile o di non fare, che il giudice possa, con il provvedimento di condanna, fissare su richiesta di parte la somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento. Si tratta, come si è detto, di una previsione assolutamente innovativa nel processo amministrativo, che tuttavia si integra con armonia nel sistema vigente che disciplina l’ottemperanza alla decisioni del giudice.

3. La determinazione del quantum della penalità.

La consapevolezza della novità emerge anche nella sentenza in esame, nella quale il Tribunale Superiore delle Acque non si limita ad una pedissequa applicazione della penalità, ma si preoccupa di evidenziare la finalità che l’istituto mira ad assolvere, specificando che esso persegue un fine sanzionatorio e non già risarcitorio, in quanto con esso il giudice mira non tanto a riparare il pregiudizio determinato dalla mancata esecuzione alla sentenza, ma a sanzionare la disobbedienza alla statuizione giudiziaria e stimolare il debitore all’adempimento. La precisazione è importante: l’art. 114, lett. e), infatti, si limita ad indicare sinteticamente le condizioni per l’applicazione della penalità di mora (occorre una istanza di parte, non devono esservi ragioni ostative e l’applicazione della penalità non deve apparire “manifestamente iniqua”). Tuttavia il legislatore, che pure dimostra di essere orientato ad una applicazione prudente dell’istituto, non ha indicato alcun criterio per la determinazione del quantum sanzionatorio, rimettendolo al cauto apprezzamento del giudice. Sottolineando che l’istituto persegue una finalità sanzionatoria, il giudice risponde già da subito alla inevitabile domanda che viene da porsi, ossia se la penalità debba essere rapportata all’entità del danno cagionato al ricorrente dall’inottemperanza da parte dell’amministrazione: la risposta, a questo punto, non può che essere negativa (nello stesso senso, Cons. di Stato , sez. V, 20 dicembre 2011 n. 6688). Va però aggiunto che, poiché per quanto non specificamente disposto dall’art. 114 cit. si ritiene che trovino applicazione anche nel processo in materia di acque le regole dettate dall’art. 614-bis del codice di procedura civile, la quantificazione della sanzione deve essere effettuata anche tenendo conto dei criteri elencati da tale disposizione, ossia non solo del valore della controversia e della natura della prestazione, ma anche del «danno quantificato o prevedibile» (salvo che ciò non appaia manifestamente iniquo). Seguendo l’impostazione accolta nella sentenza in commento, al giudice, in definitiva, spetta il compito di individuare una penalità che, seppur non direttamente rapportata al danno derivante dall’inottemperanza, non avendo l’ astreinte finalità risarcitoria, tuttavia di tal danno essa tenga conto in una misura quanto più possibile equa, valutando anche la natura della prestazione (ossia la minor o maggior complessità dell’ agere amministrativo) e l’entità degli interessi economici in gioco.

Appurata pertanto l’amplissima discrezionalità attribuita al giudice nella determinazione dell’ astreinte , appare molto interessante l’ iter logico e argomentativo seguito dal giudice nel caso di specie, nonché le severe conseguenze applicative che ne derivano. Dopo aver evidenziato la non particolare complessità degli obblighi comportamentali imposti dalla sentenza da eseguire e l’insussistenza di profili di pregiudizio, per gli interessi sensibili dell’ente vincolato (nella fattispecie si trattava di porre rimedio ad una deliberazione della giunta regionale siciliana che aveva sospeso a tempo indeterminato l’avvio di procedimenti inerenti al rilascio di concessioni per l’uso di acque minerali nell’ambito di un determinato bacino idrico della regione), il giudice ritiene adeguata una penalità di 100 euro per ogni giorno di ritardo nell’eseguire la sentenza successivo al termine di trenta giorni assegnato all’amministrazione per ottemperare. Tuttavia, considerato che la gravità dell’inadempimento si accresce con il passar del tempo, la decisione prevede anche un meccanismo di incremento automatico della penalità, da computarsi in tal modo (per una analoga soluzione, cfr. Cons. di Stato n. 6688 cit.): la sanzione pecuniaria decorre dal trentunesimo giorno, ma per l’arco di tempo di quindici giorni; successivamente, in caso di perdurante inadempimento, allo spirare del primo periodo di quindici giorni, la sanzione viene elevata del 50%, per i quindici giorni successivi, accrescendosi a 150 euro per ogni giorno di ulteriore ritardo, per poi essere elevata di un ulteriore 50% (225 euro) nei quindici giorni successivi e così via, fino all’adempimento da parte dell’amministrazione. Facendo un rapido calcolo, si può verificare che, alla fine del primo periodo di quindi giorni, la penalità complessiva ammonterebbe a € 1.500; alla fine del secondo periodo, ad € 3.750 ed alla fine del terzo periodo ad € 7.125. Per via dell’anatocismo stabilito dal giudice, la cifra spettante al ricorrente a titolo di astreinte appare destinata a crescere rapidamente: € 31.171 dopo tre mesi di ritardo, € 399.213 dopo sei mesi di ritardo, circa 59 milioni di euro per un anno di ritardo e oltre 1.133 miliardi di euro nel caso in cui l’inottemperanza dovesse durare due anni (eventualità del tutto ipotetica, ma non certo da escludersi a priori). Di fronte a importi di tale entità, di sicura efficacia, molti problemi di carattere applicativo si pongono: verrebbe innanzi tutto da chiedersi chi siano i destinatari della condanna alla corresponsione dell’ astreinte , considerato che né l’art. 114 del codice del processo amministrativo, né l’art. 614-bis c.p.c. stabiliscono alcunché al riguardo, anche se pare pienamente condivisibile l’opinione di chi ritiene «evidente, anche se la norma non lo dice esplicitamente, che la somma di denaro debba andare a favore del creditore» (Lombardi A., Il nuovo art. 614-bis c.p.c.: l’astreinte quale misura accessoria ai provvedimenti cautelari ex art. 700 c.p.c. , in Giur. di Merito , 2010, 2, 398), anche se l’evidenza, di fronte a cifre sì elevate, potrebbe apparire meno… evidente. Verrebbe altresì da chiedersi se non si possa ipotizzare il ricorso alle astreintes anche nel giudizio di cognizione, argomentando in base al fatto che l’art. 34, comma 1, lett. e) del codice del processo amministrativo attribuisce al giudice il potere di disporre le misure idonee ad assicurare l’attuazione del giudicato e delle pronunce non sospese. Ma una tale ipotesi andrebbe valutata considerando le implicazioni possibili in caso di ricorso in Corte di cassazione, giacché l’art. 205 del T.U. sulle acque dispone che il ricorso in cassazione non sospende l’esecuzione delle sentenze del Tribunale Superiore delle Acque. Si tratta, con tutta probabilità, di questioni e profili che verranno affrontati della giurisprudenza. In ogni caso, tuttavia, l’introduzione delle astreintes nel processo avanti il Tribunale Superiore delle Acque non può che apparire foriera di interessanti sviluppi e conseguenze applicative di notevole rilevanza per quanto riguarda l’affermazione del principio di effettività delle decisioni del giudice delle acque. E quindi non può che essere considerata benvenuta.

Giurisprudenza Italiana, Ottobre 2013, 2158.

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